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Jojo
Io lo so cos’è la morte, almeno credo. È qualcosa che potrei
guardare in faccia: almeno credo. Quando Pop mi dice
che gli serve il mio aiuto e vedo quel suo coltello nero infilato
nella cintura dei pantaloni, lo seguo fuori di casa, e cerco
di tenere la schiena dritta, le spalle aperte come un attaccapanni:
è così che cammina Pop. Faccio finta sia tutto normale,
quasi noioso, così Pop penserà che questi tredici anni
me li sono guadagnati, così Pop penserà che sono pronto a
fare quello che bisogna fare, separare le budella dai muscoli,
gli organi dalle cavitàPop deve sapere che posso coprirmi
di sangue. Oggi è il mio compleanno.
Tengo la porta così non sbatte, la accompagno piano verso
il montante. Non voglio che Mam o Kayla si sveglino
mentre non c’è nessuno in casa. Meglio se dormono. Meglio
se mia sorella Kayla dorme, perché è piccola e le sere
che Leonie va a lavorare si sveglia ogni ora, si mette a sedere
sul letto e urla. Meglio se nonna Mam dorme, perché
la chemio l’ha prosciugata e svuotata come fanno il sole e
l’aria alle querce d’acquaPop si infila tra un albero e l’altro,
dritto e magro e scuro come un giovane pino. Sputa nella
terra rossa, polverosa, e il vento fa ondeggiare gli alberi. È
freddo. La primavera è testarda quest’anno: la maggior parte
dei giorni non lascia spazio al caldo. Il gelo ristagna come
acqua in una vasca otturata. Ho lasciato la felpa col cappuccio
sul pavimento in camera di Leonie, dove dormo anch’io,
e la maglietta è leggera, però non mi sfrego le bracciaSe mi
lascio spaventare dal freddo, chissà che faccia farò quando
Pop taglia la gola alla capra. E Pop, visto che è Pop, se ne
accorge sicuro, della mia faccia.
«Meglio che la lasci dormire, la bambina» dice Pop.
Casa nostra l’ha costruita lui, stretta di fronte e lunga,
vicino alla strada, per lasciare alberato il resto della proprietà.
Nelle piccole radure ha sistemato la porcilaia, il recinto
per le capre e il pollaio. Per andare dalle capre dobbiamo
passare davanti alla porcilaiaLa terra è nera di fango e
merda, e da quella volta che avevo sei anni e Pop mi ha preso
a cinghiate perché ci correvo a piedi nudi non sono più
venuto qui scalzo. Puoi beccarti i vermi, così, aveva detto Pop.
Dopo, quella sera, mi aveva raccontato di quando lui, i suoi
fratelli e le sue sorelle erano piccoli, e giocavano sempre a
piedi nudi perché avevano solo un paio di scarpe ciascuno
per andare in chiesa. Si erano beccati i vermi tutti quanti, e
quando andavano al gabinetto, che era fuori, se li sfilavano
dal sedereA Pop non lo dico, ma questa cosa mi ha convinto
molto più delle cinghiate.
Pop prende la povera capra, le lega una corda intorno
alla testa, come un cappio, e la porta fuori dal recinto. Le
altre belano e gli vanno addosso, sulle gambe, gli leccano i
pantaloni.
«Via! Via!» dice Pop, e le allontana a calci. Le capre tra
loro si capiscono, mi sa: lo vedo dalle loro testate aggressive,
dai morsi che danno ai pantaloni di Pop, dagli strattoniMi
sa che lo sanno, cosa significa quella corda legata intorno al
collo di una di loro. La capra, bianca a chiazze nere, ciondola
da una parte all’altra, fa resistenza, come se sapesse
cosa l’aspetta. Pop la trascina via passando davanti ai maiali,
che si gettano contro la recinzione e grugniscono avidi
di cibo, e poi imbocca il sentiero che porta alla baracca
più vicina alla casa. Le foglie mi schiaffeggiano le spalle, mi graffiano senza ferirmi, lasciandomi sottili righe bianche
scarabocchiate sulle braccia«Perché non hai tagliato tutti questi rami, Pop?».
«Non c’è abbastanza spazio» dice. «E non è che la gente
deve per forza sapere che cosa ci tengo, dietro casa mia».
«Ma dalla strada gli animali si sentono».
«E se a qualcuno salta in mente di venire qui a far casino
con le mie bestie, con tutti questi alberi intorno lo sento
arrivare».
«Secondo te gli animali si lascerebbero portare via?».
«No. Le capre sono bastarde e i maiali sono più furbi di quel
che si credeE anche loro possono diventare pericolosi. Ti mordono,
se non sei quello che gli dà da mangiare tutti i giorni».
Io e Pop entriamo nella baracca. Pop lega la capra a un
palo piantato a terra e lei gli bela contro, rauca.
«Chi conosci, tu, che tiene tutte le bestie all’aperto?» dice
Pop. E ha ragione. Nessuno a Bois Sauvage tiene gli animali
fuori, nei campi o davanti a casa.
La capra scuote la testa da una parte e dall’altra, si tira
indietroCerca di strattonare la corda. Pop la stringe tra le
gambe, le passa il braccio sotto la mandibola.
«Big Joseph» dico io. Mentre lo dico mi viene voglia di
guardare fuori, di voltarmi verso la giornata fredda, verde e
piena di luce, ma mi costringo a fissare Pop, la capra con la
testa rovesciata, che sta per morire. Pop sbuffa. Non avevo
intenzione di nominarlo. Big Joseph è il mio nonno bianco,
Pop il mio nonno nero. Vivo con Pop da quando sono nato:
il nonno bianco l’ho visto due volteBig Joseph è grosso
e alto e non assomiglia per niente a Pop. Non assomiglia
nemmeno a Michael, mio padre, che è magro e tutto coperto
di tatuaggi. Alcuni se li è fatti fare per ricordo da qualche
aspirante artista qui a Bois Sauvage, altri quando lavorava
in mare, e poi in prigione.
«Allora ci siamo» dice.
Pop lotta come se la capra fosse un uomo, e alla capra cedono
le ginocchia. Cade col muso in avanti, gira la testa da
una parte e mi guarda, la guancia che sfrega sul pavimento
di terra polverosa e sanguinolenta della baraccaMi mostra
quell’occhio indifeso, ma io non mi volto, continuo a fissarla.
Pop affonda il coltello. La capra fa un verso di sorpresa,
un belato che finisce inghiottito da un glu glu, e poi ci sono
sangue e fango dappertutto. Le zampe della capra adesso
sono molli, come di gomma, e Pop non deve più tenerla.
In un attimo si alza e le lega una corda intorno alle zampe,
la solleva fino a un gancio appeso alle travi. Quell’occhio.
Ancora umidoMi guarda come se fossi stato io a scannarla,
a dissanguarla, a sporcarle tutto il muso di sangue.
«Sei pronto?» chiede Pop. Mi lancia una rapida occhiata.
Annuisco. Aggrotto la fronte, ho la faccia tesa. Cerco di rilassarmi
mentre Pop fa dei tagli lungo le zampe, traccia qua
e là linee che sembrano cuciture su una camicia, su un paio
di pantaloni.
«Stringi qui» dice. Indica una linea sulla pancia della capra,
e io affondo le dita e stringoÈ ancora calda, è umida.
Non sbagliare, mi dico. Non sbagliare.
«Tira» dice Pop.
Tiro. La capra è al rovescio. Puzza e viscido dappertutto,
qualcosa di acre e stantio, come un uomo che non si
lava da giorni. È come sbucciare una banana. Mi sorprende
ogni volta, la pelle viene via così facilmente non appena la
tiri. Pop dà uno strattone dall’altra parte, poi fa un taglio e
strappa la pelle all’altezza degli zoccoli. Io la tiro via da tutta
la zampa ma non riesco a toglierla bene come Pop, così
arriva lui, taglia e strappa“Questo struggente romanzo scava nel cuore del sogno americano. Imperdibile”. MARGARET ATWOOD
Jesmyn Ward
Jesmyn Ward Canta, spirito, canta
Traduttore : Monica PareschiNumero Pagine : 272
Prezzo : 18 €
ISBN : 978-88-94938-29-6
In libreria da : 02-05-2019
Jojo ha tredici anni, e cerca di capire cosa vuol dire diventare un uomo. Vive con la madre Leonie, la sorellina Kayla e il nonno Pop, che si prende cura di loro e della nonna Mam, in fin di vita. Leonie è una presenza incostante nella vita della sua famiglia. È una donna in perenne conflitto con gli altri e con se stessa, vorrebbe essere una madre migliore ma non riesce a mettere i figli al di sopra dei suoi bisogni. Quando Michael, il padre di Jojo e Kayla, esce
di prigione, Leonie parte con i figli per andarlo a prendere. E così Jojo deve staccarsi dai nonni, dalla loro presenza sicura e dai loro racconti, che parlano
di una natura animata di spiriti e di un passato di sangue. E mentre Mam si spegne, gli spiriti attendono, aggrappati alla promessa di una pace che solo la
famiglia riunita può dare.
Dopo Salvare le ossa, Jesmyn Ward torna nel suo Mississippi, una terra in cui il legame con le origini, i vincoli di sangue e la natura sono fatti di amore e violenza, colpa e speranza, umanità e riscatto. Scritto in una lingua aspra e poetica, Canta, spirito, canta guarda nelle profondità dell’animo umano come dal ciglio di uno strapiombo si guarda l’infinita distesa del mare, che lascia sgomenti, inebriati e commossi.